Sei anni di esposizioni nelle principali città d’Europa, arriva a Roma «Dancer inside Brasil», progetto fotografico concepito dall’architetto e fotografo romano Simone Ghera, in mostra dal 26 febbraio al 18 marzo nella Galleria Candido Portinari dell’Ambasciata del Brasile a Roma. Ballerine sinuose che diventano architetture: Ghera è un architetto che, dall’obiettivo, ha costruito così il suo palazzo personale. Un palazzo fatto di corpi che si fermano incastonati nelle grandi città, nei disegni dei ponti e delle infrastrutture, nelle scale di un posto qualunque. In particolare – e di questo è responsabile il produttore della mostra Max De Tomassi, storico giornalista esperto di Brasile – questa volta sono Rio de Janeiro e San Paolo le città di preferenza. Anche se a Piazza Navona non mancano di essere esposte le fotografie scattate tra Praga, Vienna, Londra, Milano, Berlino, Mosca, San Pietroburgo, Baku, città che integrano, secondo l’occhio di Ghera, il linguaggio universale della danza e il «genius loci», l’identità territoriale, in un dialogo natura-ingegneria-cultura-
Gli immensi spazi di Rio De Janeiro e le piazze di San Paolo sono ritratte anche grazie al patrocinio della stessa Ambasciata e al sostegno della compagnia aerea Tap, per la quale è stato realizzato uno specifico calendario che sarà donato agli interessati nel corso dell’esposizione. Gli scatti di Ghera, caratterizzati da orizzonti, gravità, punti di vista e superfici, immergono le ballerine in una dimensione di spazio assoluto in cui muoversi in maniera puramente arbitraria. E nell’inaugurazione in Ambasciata, anche il ive painting della pittrice Anastasia Kurakina e la performance di danza “Contaminazioni” dei ballerini coordinati da Raffaella Appia, della DIA Junior Company Formazione Bartolomei (qui sotto, il video di Rioma della performance del 26 febbraio 2016).
Domanda. Cos’è “Dancer inside…”?
Risposta. Il progetto è nato nel 2007, spontaneamente e casualmente, senza degli input precisi, se non quelli provenienti dal mio subconscio.
D. Dall’architettura alla fotografia, passando per la danza. Come?
R. Sono architetto, ma mi considero il classico architetto italiano che ha dovuto fare altro: ho lavorato in un settore molto tecnico, la prevenzione incendi, da un punto di vista economico un ottimo lavor
o: Ho eseguito lavori importanti che però di architettonico avevano ben poco, e mi è rimasta una frustrazione anche dovuta al fatto che provengo da una famiglia di architetti. Questa è anche la chiave di lettura del mio fare fotografia, cosa che mi ha sempre appassionato fin da piccolo. Avevo la mia camera oscura e sperimentavo; nel 2006 ho fatto un bellissimo viaggio in Sudafrica ed ho rimesso in moto tutte le mie macchine fotografiche. Tornato dal viaggio sono rimasto deluso dalle mie foto e ho deciso di fare un corso di fotografia per adeguarmi ai tempi e conoscere il digitale. Ho così avuto occasione di rispolverare il mio subconscio, e mi sono ricordato di aver sempre avuto una certa curiosità per la danza per il semplice motivo di ammirare l’eleganza. Eppure non ero mai andato a vedere un balletto, e non ne sapevo nulla. Mi sono così recato dall’insegnante di danza di mia figlia e ho fotografato delle sue allieve nel mio studio: questo è stato il primo seme che ha germogliato lentamente. Da lì ho cominciato a fare shooting in esterno, senza un piano. Poi mi sono reso conto che le ambientazioni che cercavo avevano un collegamento a livello architettonico, come strutture, linee e orizzonti.
D. Alla fine hai collegato la danza all’architettura. La prima è stata Roma?
R. Non ho una prima o un’ultima ambientazione, nel senso che lavoro parallelamente in tanti luoghi del mondo. Il primissimo approccio è stato a Londra, dove ho innanzitutto sviluppato il tema del sudore nella danza. Immaginavo quest’ultima come una cosa allegra e leggera, ma è tutto il contrario: le prime volte d’inverno si appannava l’obiettivo mentre le ballerine danzavano. Non avevo uno scopo né economico né lavorativo, semplicemente mi sono lasciato guidare dall’istinto, ed ho trovato situazioni interessanti facendo molte esplorazioni urbane, continuando a viaggiare ma con un occhio più clinico. Poi la cosa si è sviluppata e ho lavorato molto in Europa, cominciando in Spagna con le prime mostre. Il primo aprile sarò ospite con le mie foto nella nella Biblioteca pubblica di Madrid.
D. Come sei giunto a Madrid?
R. Le primissime cose le feci attraverso un’architetta finlandese che viveva a Madrid, che promuoveva delle mostre. Ho cominciato ad esporre anche nei ristoranti. Nel 2011 ho fatto una mostra alla Galleria La Pigna di Città del Vaticano, e da lì la mia carriera ha avuto una brusca accelerazione: il direttore si è innamorato del mio lavoro e mi ha promosso in tutti i modi possibili. Giacché quello era l’anno dello scambio culturale tra Italia e Russia, sono giunti artisti da San Pietroburgo a esporre ed io sono, invece, stato accolto lì, in un centro di arte contemporanea, il Pushkinskaya. Mi si è aperto tutto il mondo russo, che è una parte importantissima di questo lavoro. Io credevo di essere boicottato perché deformo le ballerine e faccio cose tremende, invece ho avuto un successo incredibile, così il rapporto con i russi è andato evolvendosi e l’anno successivo ho esposto allo State Academic Capella, sempre a San Pietroburgo, ed ho avuto modo di instaurare ottime relazioni con il circuito diplomatico all’estero dei russi. Sono così giunto attraverso loro a Roma, espondendo al Centro russo di cultura, poi a Londra, poi a Vienna. E in tutti e tre questi posti sono stato il primo non russo ad esporre.
D. Questo lavoro rende?
R. La risposta è no, ma è di grandissima soddisfazione, è gratificante e molto bello, ma soprattutto il fatto che io non chieda mai soldi mi rende molto competitivo. Ne Paesi anglosassoni, dove giustamente tutto si paga, a Londra la prima volta mi hanno negato la possibilità di esporre perché non chiedevo nulla, spiegandomi che ciò non era corretto nei confronti degli altri che con l’arte devono vivere, e che si trattava di concorrenza sleale. Questo lo trovo giustissimo, e volevo spiegargli che in Italia quando chiedi non ti viene mai dato. In primavera inizierò per la prima volta a quotare ufficialmente le mie foto con le aste, ma fondamentalmente il mio obiettivo è coprire i costi, che sono tanti, per girare il mondo.
D. Come sei arrivato all’Ambasciata brasiliana e alla mostra “Dancer inside Brazil”?
R. Attraverso Max De Tomassi. (nella foto a sinistra)
D. È stato lui a dirti di lavorare sul Brasile?
R. Sì, ma in realtà è un’idea che già avevo in mente ed è maturata con questa conoscenza, ricca di spunti.
D. Non conoscevi il Brasile prima di allora?
R. Affatto.
D. E come ti sei mosso?
R. Ho contattato le più grandi compagnie di danza, ricevendo accoglienza dalla compagnia di San Paolo: ho fatto delle foto negli spazi interni ed ho scattato in location esterne, come il Teatro Municipal. Il primo shooting è stato effettuato nell’Avenida Paulista, poi abbiamo fatto la stazione e il Jardim da Luz.
D. E le foto di questo progetto quali sono?
R. I cardini di questo progetto partono dal presupposto che la danza è un linguaggio universale, ma che tutti i posti del mondo si vestono diversamente, anche se la danza è unica. Fondamentale è anche, d’altro canto, il legame con i luoghi, quindi le architetture, la cultura, i paesaggi, il clima. Tutto è diverso a seconda di dove si vada. Io metto insieme questi due elementi, uno trasversale e l’altro tipico del luogo, e faccio una ricerca in questo senso per portare qualcosa che è sempre uguale a se stesso ma è anche sempre diverso. Ecco perché le mie mostre sono sempre intitolate con il nome del Paese o della città: hanno una parte preponderante di fotografie scattate in quei luoghi, però sono sempre accompagnate da un campionario d’immagini che provengono da tutto il mondo, e questo è molto importante nella mia prospettiva.
D. Con il Brasile non hai avuto altro contatto che questo?
R. Oltre alle brasiliane che ho fotografato in loco, nel corso del tempo ho fatto anche molti scatti a ballerine brasiliane di livello in giro per il mondo, ho parecchio materiale. È abbastanza difficile fare in modo che sia degnamente rappresentato il Paese o la città di cui viene intitolata la mostra.
D. Che foto hai selezionato per la mostra nella Galleria Candinari dell’Ambasciata, a Piazza Navona a Roma?
R. L’Ambasciata mi ha lasciato totale libertà. Ho scelto un numero di foto fatte in Brasile in luoghi tipici, come la Cidade do Samba di Rio de Janeiro, un hangar in cui preparano i carri per il carnevale. Sono andato nella scuola della Tijuca, piena di coppe, dove mi hanno regalato anche un libro e li ho fotografato bellissime ragazze. Mio cicerone è stato il musicista Franco Cava. Sono tutti posti molto particolari che non avrei mai visitato facendo il turista. Questi giovani brasiliani stanno invadendo il mondo perché sono bravi e belli e li trovi in tutte le scuole del mondo. Non amo molto fotografare il corpo maschile nella danza classica, mentre in altre danze, come per esempio nel tango o nel flamenco, sì.
D. Hai fatto solo mostre con “Dancer inside…”?
R. Sì, a Londra, Berlino, Madrid, Brasile, Praga, Vienna, Parigi. Le mostre sono state fatte tutte in loco.
D. “Dancer inside Brazil” è solo “diplomaticamente” in loco: non è una mostra in Brasile, ma nell’Ambasciata brasiliana a Roma.
R., Penso che la porterò, dopo le Olimpiadi, sia a San Paolo che a Rio.
D. Quando hai fatto gli scatti brasiliani?
R. A novembre.
D. Come l’hai trovato il Brasile pre-Olimpiadi e post-Mondiali?
R. Ho sentito tante cose e, sinceramente, non nascondo che ero preoccupato. Ma poi è andato tutto bene, nonostante avessi avuto molti avvertimenti di stare attento mentre facevo gli shooting per le strade. C’era comunque Max De Tomassi con me, ed avevamo assistenza.
D. Avete avuto finanziamenti?
R. Sì, e li abbiamo trovati dal marchio Dancefit, che fa abbigliamento per la danza e che ci ha dato una grossa mano. Poi diversi enti turistici locali ci hanno fornito altri servizi, la macchina con l’autista per esempio, ma è stato Max ad organizzare tutto quanto, anche la copertura con gli alberghi. È stata una cosa complessa perché una città come San Paolo ha delle distanze enormi non copribili facilmente.
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Anche su Specchio Economico – Marzo 2016
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