di ROMINA CIUFFA >
Egberto Gismonti, Auditorium Parco della Musica (Sala Sinopoli), 1° marzo 2014
Egberto Gismonti, figlio di un siciliano e una libanese, ma brasiliano della regione di Rio de Janeiro (Carmo, 5 dicembre 1947), giunge a Roma, all’Auditorium Parco della Musica nel piovoso sabato primo marzo 2014, mentre il verdeoro celebra il Carnevale e le feste sono in maschera. Polistrumentista che chiunque dovrebbe ascoltare una volta nella vita, possibilmente dal vivo. Più grande di molti grandi e come i veri talenti forse meno noto, ma contemporaneamente uno dei più apprezzati ambasciatori del Brasile e delle sue contaminazioni musicali, Gismonti è praticamente una loop station umana.
Percussionismo puro su chitarra (11 corde) ma non solo. Innanzitutto Gismonti utilizza il suo violão come cassa di risonanza di un inconscio maestoso, imponente, rischioso, emette da se stesso un battito che fuoriesce dalle melodiche corde che si dimenano. E suoni inconcepibili, crea pizzicate abili, da mille note emerge una: agli estremi della sua chitarra, dove la chitarra si accorda e poi dove entra in un buco nero, Gismonti ha trovato se stesso. Solo due mani per un effetto orchestra irripetibile, persino il suono di un violino. Grande esempio di generi disparati, giungono dai suoi pezzi insieme choro, classica, samba, e il ritmo dei richiami. La chitarra è qui il terreno di sperimentazione di tutta la musicalità brasiliana, più grande dei grandi Gismonti è il top, superando tutti, di qualunque genere, strumento e categoria: ma insieme.
La prima parte di chitarra, ma che vuol dire un’intera orchestra percussiva da solo. Nello stesso modo usa il pianoforte, seconda parte del suo concerto in Auditorium, la più gradita dagli astanti che la prima non l’hanno capita. L’infinito, la siepe del Leopardi è il suo piano a coda: oltre c’è – immaginabile – la totalità, una distesa, Leblon+Ipanema, una savana e il deserto in luogo della Sala Sinopoli. Questo pianoforte, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quello, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura.
Incontabili le note che risuonano di classica, ma che richiamano lo choro e finanche il più banale dei Richard Clayderman, e il più sincero dei George Winston, quelle zone di accordi maggiori semplici con melodia easy tra centinaia di impulsi, storie, interminabili solfeggi, ossia la luce nel tunnel e un potere, mille le dita, centomila le mani, la persuasività del ritmo e la vibrazione della coda, passi contorti alla Heitor Villa-Lobos e soprattutto un Hermeto Pascoal altisonante, la sperimentazione pura, il rischio, la follia, con il quale condivide anche lo stile, il lungo folto capello bianco.
Questo concerto è una litigata con lo psicanalista, un test di Rorschach pieno di bestie e la dipendenza da alcol, una simbiosi coll’ignoto.
Gentile si inchina raccogliendo ogni plauso, bandana accesamente rosso e capelli bianchi sciolti come fa una bella bionda. Nella notte centrale del Carnevale di Roma è questo the place to be, Rio de Janeiro è qui e in nessun altro luogo almeno fintanto che Egberto c’è. Le maschere da indossare sono quelle dell’inconscio e sentirsi nudi davanti a lui rende garanti di una brasilianità altrimenti inesistente in una Roma che è solo un repetita. Riesce, suonando il piano, a rendere l’idea di una buccia di arancia, compatta ma ricca di tremolii, la completezza: con una mano la buccia, con l’altra l’arancia, gli odori ovunque.
Sublimarsi con Gismonti, da cui hanno da imparare anche André Mehmari, Yamandu Costa, e gli altri bravi. Il polistrumentista carioca si è avvicinato alla musica giovanissimo, intraprendendo gli studi classici al pianoforte e perfezionandosi poi in arrangiamento e composizione a Parigi, dove è stato allievo di Nadia Boulanger e Jean Barraqué all’inizio degli anni 60. L’incontro successivo con le sonorità di Heitor Villa-Lobos, del jazz, del rock e delle tradizioni degli indios Xingù, con i quali ha vissuto a lungo, ha profondamente influito sulla sua formazione facendo di lui un compositore raffinato, uno sperimentatore creativo e un abile accompagnatore. Trascorre due anni sperimentando diverse accordature dello strumento e ricercando nuove sonorità, ricorrendo all’uso di flauto, kalimba, sho, voce, campane, ecc. Durante la prima metà degli anni 70 egli pone le basi per la sua concezione attuale della musica, ascoltando e traendo ispirazione da musicisti molto diversi tra loro, come Django Reinhardt e Jimi Hendrix, avvalorando così la tesi dell’assenza di contraddizione tra musica “popolare” e “seria”. Tra le sue collaborazioni, Pedro Aznar, Charlie Haden, Naná Vasconcelos, Jan Garbareke, Hermeto Pascoal. Nella sua musica unisce in maniera originale le varie tradizioni musicali del Brasile con la sua formazione classica; ha composto musica per il cinema, il teatro e la televisione e realizzato più di sessanta dischi registrando anche con illustri nomi della musica internazionale.
Certe volte è proprio il caso di dire “grazie Auditorium”. È questo il nostro Carnevale, entrare nell’inconscio travestiti da noi e guidati da un capo indio.
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